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presidente1Quando un uomo si trova a compiere 60 anni, è normale che arrivi ad un momento importante della sua vita e si trovi ad affrontare un bilancio di ciò che ha fatto e di ciò che desidererebbe fare ancora. La vita di una Associazione ha una unica grande differenza con quella di un uomo: mentre la seconda, inevitabilmente, ha un termine, la prima continuerà anche dopo, quando non ci saremo più e dunque la nostra responsabilità nei confronti di un’Associazione come la nostra, è la stessa che abbiamo nei confronti dei nostri figli.

Perché ciò che abbiamo fatto lo abbiamo fatto per loro e vorremmo che tutti i nostri sforzi andassero almeno a migliorare la vita di chi ci succederà. L’ANMIC compie quest’anno 60 anni e per me non è solo l’onore che mi deriva dalla carica che ricopro ma anche un onore “personale” quello di poter guardare indietro ed affermare con certezza che questi decenni sono stati ricchi di grandi imprese, grandi battaglie, grandi soddisfazioni.

È inutile dire che, come ogni buon padre di famiglia, anche per chi guida una organizzazione così importante ci sono dei momenti di difficoltà, non dico rimpianti, ma certamente desideri ancora latenti, voglia di guardarsi indietro per ammirare ciò che si è fatto, ma anche necessità di guardare avanti come un esploratore che ha visto tutti i continenti ma capisce che il mondo ha ancora tanto da offrirgli; ecco, vorrei che per tutti noi lo spirito fosse ancora questo: quello di un esploratore che tanto ha viaggiato ma che vuole far crescere chi lo seguirà con l’assoluta certezza di non lasciare mai nulla indietro, con la caparbietà di un miglioramento costante, come un calciatore che ha vinto tutto ma vuole ancora stupire e fare gol.

Quando tutto questo nacque, molti di noi non erano ancora nati; il Paese veniva da uno dei peggiori periodi che la storia dell’uomo abbia mai conosciuto e non solo l’Italia ma tutto il continente, forse tutto il mondo, usciva da un conflitto che aveva devastato gli uomini nell’anima, ancor prima che nel corpo. Erano gli anni in cui tutto era da ricostruire e, forse, l’uomo aveva dentro di sé un duplice sentimento che lo portava da un lato a piangere per tutto ciò che aveva visto nei terribili anni precedenti, ma che lo spronava, dall’altro, a voler uscire dal tunnel della fame, della guerra, dell’angoscia.

Ed ecco allora che, come ogni buon padre, ci si rimbocca le maniche e si guarda avanti non tanto per noi quanto per dare un futuro migliore a chi si ama e che verrà dopo. Il Paese usciva distrutto, a pezzi, da un conflitto devastante; la gente aveva fame nel senso vero della parola. Molti mendicavano all’angolo delle strade e delle chiese. Erano gli anni in cui tutto andava ricostruito e sembrava impossibile che un gruppo di uomini, forse più sensibili di altri, decidessero di fare qualcosa per dare un futuro a tutti coloro che erano usciti martoriati dal decennio precedente.

È il 1956, l’anno in cui Roma è coperta da una fitta nevicata. Ci si vede a Taranto, chissà forse casualmente, per quel destino che unisce gli uomini, come in un film già scritto: 11 persone fondano l’ANMIC e danno vita a quella che per molti sarà non solo l’organizzazione dei disabili, ma lo scopo della loro vita. Il momento è di quelli solenni e forse neanche loro sono pienamente consapevoli che, da quel giorno, quei pochi fogli stilati davanti a un notaio daranno vita all’organizzazione più importante e, storicamente, più attiva sul territorio nazionale per la difesa di chi, in quel momento, non aveva nulla: non aveva assistenza, non aveva futuro, non aveva speranze, non aveva organizzazione.

Ed ecco allora i primi passi, proprio in questa direzione: bisogna darsi un’organizzazione! È quello che viene fatto nello spazio di un tempo che oggi sembra a noi lontanissimo, una intuizione che per loro si tradusse immediatamente in una serie di incontri, di avvenimenti, di congressi, in una parola “il riconoscimento di esserci”: l’ANMIC non è più una realtà stilata asetticamente sulla carta di un notaio, ma l’organizzazione dei disabili che fino a quel momento nessuno aveva visto, o forse non avevo voluto vedere.

È vero: tutti eravamo poveri, ma qualcuno lo era più di altri, qualcuno che non aveva più neanche il corpo né lo spirito integri per poter lottare, qualcuno che, se non fosse stato organizzato, sarebbe rimasto solo ed in balia di un Paese ancor troppo occupato a guardarsi indietro. Furono uomini eccezionali perché ebbero la forza di non “piangersi addosso” come avrebbero fatto tanti altri.

E furono ancor più eccezionali perché da tutto ciò non trassero nessun giovamento personale, nessun tornaconto. Lo spirito era quello di servire chi, dalla vita, aveva avuto meno degli altri e questo è lo stesso spirito che, a distanza di 60 anni, ci anima ancor oggi e ci distingue dalle mille organizzazioni che poi sono seguite. La neonata Associazione si diede una organizzazione capillare e territorialmente presente un pò ovunque ed oggi, a distanza di tempo, sono certo di poter affermare che quella della capillarità organizzativa è una delle caratteristiche fondamentali che rendono l’ANMIC ancora vicina ai bisogni ed alle necessità dei suoi associati.

L’organizzazione crebbe a dismisura così come il Paese a quel tempo; l’Italia viveva gli anni del boom economico ed il benessere che fino ad allora era di pochi iniziò a farsi sentire sulla quella classe medio borghese che costituisce ancor oggi l’ossatura del Paese. L’ANMIC passò così dal “chi siamo” al “cosa vogliamo” ed ecco allora che iniziano, per noi come per il resto del Paese, gli anni delle rivendicazioni e delle battaglie. La prima, la seconda e poi la terza marcia del dolore, come se di dolore non ne avessimo avuto abbastanza.

Il movimento degli invalidi crebbe ed iniziò ad avere la consapevolezza della propria forza e la certezza di essere nel giusto: non erano battaglie di retroguardia ma rivendicazioni corrette, richieste giuste e giustificate dalla troppa inerzia vissuta fino ad allora da una politica ancor troppo distratta e disattenta ai bisogni di cittadini che fino ad allora erano considerati di serie B. E dopo aver tanto “marciato”, i primi grandi traguardi, le prime storiche conquiste. Il Paese si accorge che esiste chi non vuole solo il televisore o il frigorifero: vuole essere riconosciuto cittadino come gli altri, un uomo tra gli uomini, con tutti i diritti ed i doveri derivanti dal semplice fatto di essere uomo, donna, bambino.

Dalla pietà al pieno diritto di cittadinanza, dalla commiserazione al riconoscimento di essere un uomo come tutti e dunque con tutti i suoi bisogni e le sue legittime aspirazioni: il lavoro, l’autonomia, la dignità. Ed ancora grandi battaglie, grandi sacrifici, grandi vittorie. Tutto quello che i disabili hanno oggi lo debbono a coloro che si sono inginocchiati sulle piazze e che hanno dato il loro sangue per il miglioramento di tutti, che hanno sfilato su viali gremiti e sotto piogge incessanti per dire al mondo “questo è quello che vogliamo, questo ci spetta di diritto: non ci muoveremo da qui fino a quando non lo otterremo”.

Ed abbiamo sempre ottenuto, forti delle nostre corrette richieste, quello che volevamo e che ci derivava dalla forza delle idee e dalla caparbietà di chi le portava avanti: Lambrilli, Pagano, Pietrella, Quaranta, Bravaccini, Negrini, Mons. Cecchetti, gente che ha fatto la storia di questo Paese, gente alla quale tutto il mondo della disabilità deve tutto ciò che, nel tempo, ha faticosamente ottenuto. Poi gli anni del consolidamento, spesso battaglie per “mantenere più che per ottenere”. Sembrerebbero battaglie di retroguardia ma non sono così perché non sempre è facile mantenere ciò che si è conquistato.

E se oggi possiamo spegnere 60 candeline è perché sulla torta dell’ANMIC non ci sono solo glorie, ma lotte, sacrifici, vessazioni, battaglie di ogni genere. Per me è dunque un momento particolarmente importante e credo lo sia per tutti coloro che hanno voluto bene a questa Associazione alla quale molti hanno dedicato la loro stessa vita. Ma il pugile che ha combattuto un buon round, sa bene che l’incontro non è finito e che, se non vuole rischiare, deve rimettersi in piedi con la stessa grinta del round precedente e dare battaglia fino alla fine.

Quello che ci aspetta non è un momento facile e tutti ne siamo perfettamente consapevoli. La crisi del welfare, il ripensamento dello Stato sociale, le risorse da gestire con oculatezza e spesso parsimonia, le difficoltà emergenti dal mondo del lavoro, un semplicistico egoismo latente ed una politica spesso distratta da battibecchi da cortile: nulla ci fa pensare che il domani sia facile. Ma l’ANMIC che vorrei è quella che guarda a domani con la stessa indomita fierezza dei nostri padri, di coloro che non si sono piegati davanti a una guerra ma hanno saputo uscirne a testa alta consapevoli della durezza ma anche del grande destino che li avrebbe attesi.

Ora è il momento delle strategie del futuro, dei grandi temi ai quali dovremo abituarci e che dovremo affrontare: il “dopo di noi”, l’inclusione scolastica, senza tralasciare quei temi che non sono propri solo del mondo dei disabili ma comuni a tutti noi: una particolare attenzione al mondo del lavoro; consapevoli che dove non c’è lavoro non c’è autosufficienza e dove non c’è autosufficienza non c’è dignità; un costante monitoraggio rivolto ad un mondo accessibile a tutti, dove l’abbattimento delle barriere sia mentale ancor prima che architettonico, dove il poter lavorare, andare al cinema prendendo un autobus o uscire da un supermercato sia possibile a tutti e non si debba avere la mortificazione del “chiedere”, l’umiliazione di chi ci vuol per forza far sentire disabili. Siamo fieri delle nostre disabilità: sono gli altri che debbono vergognarsi di farcele sentire. Voglio guardare al futuro con la certezza di avervi al mio fianco perché non voglio deludervi: deluderei me stesso e questa è l’ultima cosa che non potrei perdonarmi.

Nazaro Pagano

Presidente Nazionale ANMIC