Le crescenti diseguaglianze di reddito e più in generale di chances di vita sono, ad un tempo, effetto e causa delle crisi che sta devastando il mondo occidentale.
Per contro, l’uguaglianza è fattore primo di sviluppo economico e sociale. Nel giro di breve tempo siamo passati da una crisi finanziaria a una crisi economico-produttiva che si è trasformata in crisi occupazionale. Questa è diventata crisi umana e sociale, in grado di incidere pesantemente sui fondamenti stessi delle vita civile. La crisi del 2008 è stata essenzialmente economico finanziaria. Quella di oggi nasce dai problemi irrisolti di allora, ma è una crisi essenzialmente politica. Se non viene arginata rischia di mettere in pericolo la stabilità delle democrazie occidentali.
Il capitalismo finanziario e speculativo, finalizzato ad un profitto di breve e brevissimo termine - anzi, finalizzato all’aumento del valore di borsa delle azioni - plasma e condiziona i processi economici a scala globale e nazionale, sottraendoli ad ogni forma di controllo nell’interesse collettivo. Alla crescita delle disuguaglianze e della povertà ha contribuito il convincimento, di stampo neo-liberistico, che per guadagnare in competitività, in un quadro di globalizzazione, le cose più importanti da fare fossero sacrificare il Welfare attraverso il taglio della spesa pubblica, contenere drasticamente il costo del lavoro e, in particolare, non tassare i ricchi grazie a sistemi impositivi sempre più regressivi.
L’economia reale, la sola in grado di produrre benessere, occupazione e sviluppo, che sono le precondizioni necessarie per una maggiore equità, risulta bloccata. Il gioco perverso della moltiplicazione artificiosa di una ricchezza che non cresce sta giungendo al capolinea e sta trascinando con sé banche, Stati, istituzioni e in modo particolare la vita di miliardi di persone. Il sistema capitalista non può sopravvivere in un contesto con grandi sperequazioni. L’esperienza dimostra che i paesi a più alto indice di eguaglianza sono quelli che, coniugando rigore, equità e sviluppo, stanno superando meglio la crisi. È il caso dei paesi del nord Europa.
La crisi del lavoro è la cartina di tornasole di tutto ciò. È agevole constatare che tra lavoro - che non c’è, che è aleatorio e che si perde - ed esperienze di vita dei diversi soggetti si stanno producendo fratture preoccupanti, quasi di tipo ontologico. Per molte famiglie il lavoro non è tale da garantire un’esistenza dignitosa. Ciò fa diminuire l’integrazione sociale nel mentre si sviluppano fenomeni di frantumazione e isolamento. Il lavoro a rischio genera anche una “perdita o razionamento di libertà”. Chi non ha più il lavoro o teme di perderlo soffre sotto il profilo sociopsicologico e la sofferenza si ricollega non soltanto alla perdita di reddito, ma piuttosto alla perdita di status, di capacità di fare, di apprendere. Tra non lavoro e esclusione i confini diventano sempre più labili.
L’esclusione è oggi un grande dramma e una grande paura. Essa è forse più grave delle tradizionali forme di sfruttamento proprie delle società industriali. Lo sfruttamento presuppone pur sempre un rapporto sociale di tipo oppositivo, intorno al quale sono sorte le diverse organizzazioni del movimento operaio e sindacale. Questo rapporto non esiste nell’area dell’esclusione. Qui troviamo soltanto degli individui, dispersi, praticamente invisibili, senza espressione propria, senza mezzi di appoggio e di lotta. Gli esclusi non possono prendere parola, non possono cooperare, non hanno parte nello scambio sociale. I “numeri” hanno finito per prendere il posto degli uomini, specie dei più deboli e quindi più bisognosi di Stato sociale, ma questo – come già osservato – ha subito pesanti ridimensionamenti. Alla compassione nei confronti di coloro che si trovano in difficoltà - e oggi sono sempre di più - si è sostituito l’assillo del riequilibrio contabile, del pareggio di bilancio, della riduzione dell’indebitamento pubblico.
La “salvezza” non cade dall’alto, non è benevolmente concessa, va – per così dire – conquistata o meglio costruita muovendo dal basso, laddove la gente vive, soffre, spera in qualcosa di diverso. Qualsivoglia discorso in tema di solidarietà non può che partire da lì. Solidarietà è una parola largamente usata e anche abusata. Non si può fare di ogni erba un fascio. C’è solidarietà e solidarietà.
C’è una solidarietà meramente compassionevole, assistenziale, passiva. Riconosce l’esistenza di situazioni di disagio, di povertà, di squilibrio. Cerca in qualche modo di addolcirle, di mitigarle con erogazioni private o pubbliche, senza però mettere in discussione le cause di tali situazioni. Non si crea un rapporto di fiducia con l’altro, questo rimane uno sconosciuto, senza un volto da guardare. C’è invece una solidarietà attiva, partecipativa. Essa è il prodotto di azioni personali e collettive finalizzate alla rimozione delle diseguaglianze, all’aumento della democrazia a livello politico, economico, sociale, all’allargamento degli spazi non solo di autodeterminazione ma anche di autorealizzazione.
In tale ordine di idee si collocano i fondamenti di un nuovo Welfare. Un Welfare che, non assiste ma abilita, un Welfare innanzi tutto attraverso l’eliminazione degli ostacoli che impediscono agli individui - singoli, isolati, esclusi - di diventare persone.
Su questi snodi e su questi passaggi si gioca la partita del bene comune. Il bene comune è di tutti e di ciascuno e quindi è indivisibile perché soltanto assieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo, custodirlo in vista del futuro. In altre parole, il Welfare – basato sul bene comune – non è dato semplicemente dalla massimizzazione dei progetti individuali che possono essere perseguiti senza interferire l’uno con l’altro nella assolutizzazione del principio della libertà di scelta individuale, bensì dall’impegno dei vari soggetti in opere comuni, costruendo e rinsaldando rapporti solidali di comunità. Occorre pensare a una economia e a un Welfare innestati nella società civile, in grado al tempo stesso di esercitare un’azione di pressione e di contaminazione nei confronti tanto dello stato quanto del mercato. Con altre parole, l’inclusione sociale, la “vita buona” non sono competenza esclusiva della dimensione pubblica, né tanto meno possono essere vendute e acquistate pagando il prezzo relativo. Sono viceversa una funzione sociale diffusa, trasversale che chiama in causa diversi attori e diversi ambiti in cui essi operano, ciascuno con i propri ruoli, valori, specificità, accomunati dalla ricerca di complementarietà e sinergie sul terreno della relazionalità, reciprocità, creatività.
La società civile – qualora non venga assunta in termini vaghi e indistinti – diventa laboratorio di innovazione sociale, capace di indurre trasformazioni più generali. La società civile può essere infatti luogo di solidarietà concreta così come si esprime nei rapporti comunitari di tipo diretto, nel riconoscimento, nella solidarietà; condizione per la costruzione della proprie identità personali e collettive; momento di regolazione sociale; fattore di creatività, di imprenditorialità tanto sul fronte del mercato (si pensi allo sviluppo delle piccole e medie imprese) quanto sul fronte del privato-sociale.
Il rapporto tra società civile e terzo settore è di piena evidenzia. Questo non si pone in termini di mera supplenza o riparatori nei confronti delle insufficienze di Stato e mercato, ma si caratterizza per il di più di beni e servizi meritori che produce o meglio per il contributo che può fornire per la costruzione di una società nella quale sviluppo equilibrato e decente qualità di vita per tutti sono strettamente connessi, una società con costi umani meno elevati degli attuali, capace di riprodursi creativamente, ma anche di rispondere alle domande di partecipazione attiva delle persone, singole e associate.
Il terzo settore può contribuire a far emergere e consolidare i due grandi valori che dovrebbero caratterizzare la società civile. Il valore della libertà, una libertà radicata in un tessuto di relazioni autentiche in grado di contrapporsi alle odierne tendenze omologanti e massificanti; il valore della solidarietà praticato nella sussidiarietà nel senso che ciascuno è responsabile di sé e degli altri, che i bisogni dei più deboli sono diritti che vanno riconosciuti, che tutti devono avere la possibilità di essere protagonisti, secondo le proprie capacità e ruoli, nell’impresa, nella città, nella società.
Le esperienze del mondo cooperativo, delle fondazioni, delle imprese sociali, del volontariato, del commercio equo e solidale, del microcredito, ma anche delle imprese profit impegnate in progetti di responsabilità sociale e di Welfare aziendale ci dicono che le frontiere dell’economia e del mercato possono essere allargate nella prospettiva del bene comune. Trattasi di esperienze che rovesciano la prospettiva del “do ut des”, dello scambio che non guarda alle persone, che evita il coinvolgimento. In luogo di situazioni ove i più forti sfruttano a proprio vantaggio le posizioni di debolezza di chi ha di meno, di chi non ha voce, non ha potere di mercato emergono relazioni di cura (darsi carico) attraverso le quali consumatori, lavoratori, risparmiatori, produttori si impegnano per offrire pari opportunità, costruire le capacità e promuovere inclusione per coloro che sono rimasti incagliati nella trappola della povertà.
In definitiva attraverso il terzo settore passa la possibilità di una "riconciliazione" tra le diverse dimensioni del vivere associato. Riconciliazione tra:
- socialità ed economicità superando l'impostazione per cui la prima è considerata esclusivamente come un costo o un vincolo da minimizzare e la seconda come unica espressione di efficienza ed efficacia imprenditoriale;
- sviluppo della produttività e possibilità di aumento delle opportunità di lavoro perseguibili attraverso una diversa distribuzione del tempo di lavoro e il finanziamento di attività di utilità sociale;
- flessibilità per far fronte al cambiamento, all’innovazione e salvaguardia di valori fondamentali delle persone e delle famiglie che non possono essere strumentalizzati e precarizzati;
- uguaglianza irrinunciabile dei soggetti e valorizzazione delle responsabilità e delle competenze tanto nell'ambito produttivo quanto nell'ambito delle relazioni sociali.
La razionalità dei sentimenti, della reciprocità, della condivisione, del dono e la razionalità strumentale dell'impresa e delle istituzioni. La razionalità strumentale o burocratico-centralistica poggia su ipotesi che contrastano nettamente con una visione dell’uomo dotato di spirito di iniziativa, di auto responsabilità, animato da valori morali e sociali, portato a cooperare e per il quale le motivazioni altruistiche sono altrettanto legittime di quelle ispirate al proprio tornaconto. Nell’ambito del terzo settore è possibile rinvenire un nuovo terreno di sperimentazione per sviluppare le energie che le persone sono disposte a mettere in campo quando vanno alla ricerca del senso da dare alle proprie capacità e conoscenze, in definitiva al proprio essere. La libertà delle persone e delle formazioni sociali di impegnarsi e perseguire seriamente il proprio bene, e da qui il bene comune, è il fattore sul quale conviene meditare più a fondo. Da un nuovo senso del vivere insieme potrebbero discendere tranquillità e perfino felicità inaspettate. Affinché il terzo settore possa pienamente assolvere al proprio ruolo si rende pertanto necessaria la elaborazione di una politica di sostegno e di promozione a scala nazionale e, soprattutto locale. Deve però trattarsi di una politica, non già omologante, bensì plurale. Plurale quanto a soggetti coinvolti, contenuti, metodologie, ambiti di intervento. All'autorità pubblica si richiede la predisposizione di sistemi di regolazione piuttosto che di regolamentazione. Occorrono pianificazioni non calate dall'alto ma partecipate sia in fase di impostazione (conoscenza e valutazione dei bisogni) sia in fase di attuazione (creando spazi per le iniziative che maturano dal basso) sia in fase di verifica dei risultati raggiunti. Nell'ambito di un quadro ordinamentale nazionale, le connessioni tra Regioni, autonomie locali, società civile sviluppano e moltiplicano le potenzialità esistenti, ne favoriscono il sorgere di nuove.
Il territorio, nelle sue molteplici dimensioni, non è un contenitore neutrale di processi e attività differenziate, bensì soggetto di sviluppo, risorsa fondamentale per la promozione di vita buona per tutti. Muovendo dal territorio è possibile operare per l’allargamento della base sociale ed economica del Paese, superando i limiti di politiche pubbliche di tipo aggregato e congiunturale. A livello locale è poi possibile l’esplicitazione e l’arricchimento dei progetti decisi centralmente, facendo sì che essi assolvano a un ruolo trainante e promozionale rispetto alle specifiche potenzialità. Risulta del pari fattibile la ricomposizione della molteplicità di leggi, di strumentazioni e di risorse sovente frammentate ed eterogenee.
C’è una domanda di Welfare, o meglio, di vita buona che deve essere valorizzata, trasformata da virtuale in effettiva. Nel contempo occorre assicurare la pluralità dei soggetti di offerta dei servizi evitando la formazione di posizioni di rendita garantendo una reale libertà di scelta da parte dei cittadini. L’ente pubblico a scala locale (Comune e Regioni) è fattore costitutivo e rafforzativo della coesione sociale. La coesione del territorio è elemento strategico sia per il Welfare della comunità che vi risiede sia per il suo sviluppo economico. In questa ottica, molteplici sono le sinergie possibili tra sviluppo economico e sviluppo sociale, tra competitività e giustizia, tra diritti e crescita. Gli istituti della cittadinanza sociale potenziano la produttività complessiva del Paese, migliorandone la collocazione nella divisione internazionale del lavoro.